Come tanti altri giovani aspiranti attori, Andrea Di Palma ha iniziato il suo percorso di iniziazione al teatro sotto la mia direzione, dieci anni fa, partecipando ad un corso di formazione teatrale a Frosinone. Come è avvenuto per altri allievi dotati di talento, serietà e passione, Andrea è entrato a far parte della Compagnia Teatro dell’Appeso ed ancor oggi è parte integrante di essa, sia come attore sia come collaboratore in ambito culturale e organizzativo. Nel decennio 2010-2020, diversi sono stati gli spettacoli da me diretti che hanno visto Andrea impegnato in qualità di interprete (ben delineati in questa sua significativa testimonianza) tra cui: “I ricordi e l’oblio” (omaggio a Marcello Mastroianni), “Il canto del cigno” da Cechov, “L’amore medico” di Molière (vedi foto).
Le sue parole esprimono egregiamente il senso e il valore di una storia quarantennale che non ha avuto solo valenza artistico-culturale, ma anche didattico-pedagogica e politica, il cui valore e la cui portata non hanno ricevuto, se non sporadicamente, la giusta considerazione da parte delle istituzioni del nostro territorio ma, come ben scrive Andrea, “nessun problema, l’insegnamento vero non chiede nulla indietro, ma pianta semi con la fiducia che qualcosa, prima o poi, nascerà”.
Amedeo di Sora
<<Il Teatro dell’Appeso compie quarant’anni. Mi guardo indietro e capisco di aver avuto l’onore di condividere un quarto di viaggio con Amedeo di Sora e tutti coloro che fanno parte di questa compagnia, unico esempio di un teatro vivo, vero, in questa zona. Vitale, direbbe Eduardo. Grazie ad Amedeo, posso dire di essere anche io un Appeso che guarda il mondo a testa in giù, per trovare un’altra via, un altro modo di concepire e raccontare il mondo attraverso gli occhi del Teatro.
È stata un’ancora di salvezza per me.
Se qualcosa ho imparato sul Teatro, è stato grazie al Teatro dell’Appeso. È stata l’unica occasione, per un ragazzo appassionato di palcoscenico, per poter coltivare e lavorare in questo mondo in una provincia che vede ancora la cultura come accessoria o come un distintivo vuoto, fatto di belle e vane parole, da appendersi sul petto. È grazie ad Amedeo che, dopo i miei studi universitari, ho potuto toccare con mano tutto ciò che avevo appreso sui libri. E, appeso a testa in giù, grazie a lui e alla compagnia tutta ho capito (spero) che il teatro è un equilibrio senza compromessi, che pretende di unire costantemente la leggerezza dell’aria alla concretezza della terra: non permette il vuoto della vanità, né il chiacchiericcio costante che nulla dice; una ricerca continua di uno scambio tra platea e palco, tra persona e persona, tra chi guarda e ascolta e chi agisce, a sua volta condizionato. Per nulla facile, ma questo ha cercato il Teatro dell’Appeso, la cui storia è quella di tante persone, che, come me, hanno amato, amano e ameranno il Teatro in un territorio, in una Provincia anestesizzata, dove un teatro come luogo fisico non c’è e, purtroppo, forse non ci sarà mai.
Il più grande regalo che Amedeo ha fatto a me dieci anni fa è stato proprio questo: la possibilità di poterlo pensare insieme, questo teatro. Immaginarlo, cercarlo, sognarlo, grazie agli spettacoli provati e portati in scena: lo abbiamo cercato nella sfida fiabesca tra il Diavolo e il Soldato di Afanasjev, nel malinconico circo de La Torre di Weiss, nei labirinti di parole di Borges, nei ricordi cinematografici di Mastroianni uomo e mito, in una Roma astratta e sporca tra Plauto e Pasolini, nella scrittura arcigna e combattuta di Tommaso Landolfi, nel crepuscolo di un canto del cigno di Cechov, negli equivoci di un amore medico in maschera di Moliére. È qui in mezzo e oltre che si è eretto il nostro teatro personale, vero, reale, tangibile, seppure non fisico, che ho condiviso con Amedeo e con la Compagnia del Teatro dell’Appeso.
Un teatro dal quale ho imparato il rigore delle prove.
Di come l’attore sia in primis autore.
Di come un corpo sia fatto di parole. E le parole prendano vita dal corpo.
Di come ogni elemento in scena sia unito da un filo rosso.
Di come non ci si improvvisi attori.
Di come non si finirà mai di imparare.
Di come ci sia una grande differenza tra dilettantismo e amatorialità.
Di come il teatro sia sempre, in qualsiasi modo, politico: un momento di riflessione che prenda coscienza della e dalla realtà.
Per questo e per molto altro che non riesco a riassumere a parole, Amedeo è un maestro per me. Non ho paura di abusare del termine. Amedeo mi ha insegnato tutto ciò nella maniera più naturale, onesta e sincera possibile; è un rapporto denso, pieno di significato, di momenti in cui ci fermiamo a ragionare solo per il gusto di pensare ad un “teatro possibile”, un nuovo teatro possibile. Ho avuto le mie esperienze attoriali fuori dal Teatro dell’Appeso, ma sono tutte figlie di questo incontro fondamentale, con cui devo e voglio fare i conti. Ciò che ha fatto con me, il Teatro dell’Appeso, nella persona di Amedeo, lo ha fatto con tanti, tantissimi altri giovani (e non) della provincia di Frosinone: una costante opera di pedagogia teatrale, che è pedagogia alla vita e alla cultura. Un’apertura ai giovani che è apertura al futuro e speranza incondizionata verso un mondo migliore. Fiducia, che, però, non sempre il territorio ha ripagato. Nessun problema, l’insegnamento vero non chiede nulla indietro, ma pianta semi con la fiducia che qualcosa, prima o poi, nascerà.
È qui che il Teatro dell’Appeso si ricollega ad una delle figure irrinunciabili del teatro del secolo scorso, Antonin Artaud. E si ricollega ad esso tramite una parola di cui, in questo preciso momento storico, abbiamo molta più consapevolezza: “contagio”. Con le debite distanze e il doveroso rispetto per la situazione critica attuale, riporto il pensiero di Artaud che diceva che il teatro deve essere “contagioso”, uno scambio di idee da persona a persona tramite i sentimenti che scaturiscono dal palco e nella relazione unica tra attore e spettatore, i quali escono irrimediabilmente cambiati dopo la condivisione dell’atto performativo.
Questo ha fatto il Teatro dell’Appeso con me e con tutti quelli con cui è entrato in contatto: ha permesso di cambiare, tramite il suo teatro performativo, politico e pedagogico, lo sguardo sulla realtà.
Perché come scriveva Antonio Neiwiller:
“Né un Dio,
né un’idea,
potranno salvarci
ma solo una relazione vitale.
Ci vuole
un altro sguardo…”
Quello di un Appeso a testa in giù.>>